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Enrico Buemi

 

 

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Intervento in Aula

Buemi apre l'esame del DDL sulla responsabilità civile dei magistrati

È cominciata nell'Aula del Senato, con la relazione del senatore Psi Enrico Buemi, la discussione generale sul disegno di legge per la Responsabilità civile dei magistrati.

"Rivendico dalla mia parte politica la convinzione secondo cui la responsabilità civile dei giudici è deterrente, storicamente individuata dall'opinione garantista del nostro Paese, per responsabilizzare i protagonisti del sistema giustizia". Così Buemi ha aperto la discussione generale sul provvedimento.

Ecco stralci dell'intervento di Buemi:

"Signor Presidente, colleghi, la responsabilità civile del giudice nel nostro ordinamento fino al 1987 era disciplinata dall'articolo 55 del codice di procedura civile, per il quale il giudice rispondeva civilmente quando nell'esercizio delle sue funzioni è imputabile di dolo, frode o concussione, e quando senza giusto motivo rifiuta, omette o ritarda di provvedere sulle domande od istanze delle parti e, in generale, di compiere un atto del suo Ministero. Era esclusa, dunque, la responsabilità per colpa grave. L'articolo 74 dello stesso codice estendeva questa disciplina di favore anche ai magistrati del pubblico ministero, ma limitatamente all'ipotesi di dolo, frode e concussione.

Non era valso ad allargare l'ambito della responsabilità civile dei magistrati l'articolo 28 della Costituzione, per il quale «i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli ente pubblici sono direttamente responsabili secondo le leggi penali, civili e amministrative degli atti compiuti in violazione dei diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli altri enti pubblici». Come è noto, la Corte costituzionale, con sentenza del 14 maggio 1968, n. 2, aveva lasciato le cose al punto in cui stavano, essendo stata ritenuta legittima la disparità di trattamento tra gli appartenenti all'ordine giudiziario e tutti gli altri pubblici funzionari, ai quali si applicavano invece le norme del testo unico che, accanto al dolo, prevedevano anche la colpa grave.

In Francia, dove esiste un modello burocratico di organizzazione, risalta una forte e penetrante responsabilità disciplinare del giudice (avendo il legislatore francese omogeneizzato la posizione del magistrato a quella del pubblico funzionario), mentre la responsabilità civile per colpa grave - se ha storicamente assunto lo stesso significato di eliminare situazioni di privilegio del giudice rispetto agli altri funzionari pubblici - si configura soprattutto come responsabilità dello Stato. Nei Paesi di common law, invece, dove esistono modelli professionali di organizzazione, la responsabilità del giudice, civile e disciplinare, trova invece poco spazio, perché la professionalità del giudice è considerata di per se portatrice di valori garantistici.

L'esperienza italiana assume connotazioni peculiari perché, pur ispirandosi al modello burocratico di organizzazione della giustizia, accentua l'indipendenza e l'autonomia dell'ordine giudiziario ed esclude forme di controllo politico anche indiretto: situazione che - come è noto - si caratterizza per la presenza di un organo di autogoverno, il Consiglio superiore della magistratura, che non ha riscontro alcuno in altri ordinamenti. Ciò sia per l'assenza di controlli periodici, essendo l'avanzamento dei magistrati reclutati per pubblico concorso regolato quasi esclusivamente per anzianità, sia per l'inefficacia della responsabilità disciplinare rimessa alla negoziazione correntizia, cui si è cercato invano di far fronte in sede di revisione costituzionale, con la proposta di sorteggiare i componenti del Consiglio superiore della magistratura.

La peculiarità dell'esperienza italiana, quindi, ha fatto sì che il nostro magistrato di formazione burocratica, ma con inusitate autonomia ed indipendenza dall'Esecutivo, continuamente aspiri ad un modello professionale, dimenticando che ben diversa è nei Paesi di common law la sua legittimazione. Ciò si riflette anche sul tema della responsabilità civile, perché aspirare ad un modello professionale significa aspirare alla irresponsabilità civile del giudice anglosassone, privando totalmente di considerazione sistemica l'aspetto della tutela del cittadino dagli effetti dell'attività giurisdizionale. Si tratta di un profilo che una componente importante della società italiana, visti i disservizi del sistema giustizia accumulatisi nei decenni, richiede di affrontare con decisione. Lo fece l'iniziativa referendaria del 1987, avanzata dal Partito radicale, dal Partito liberale italiano e dal Partito socialista italiano. Grazie ad essa 20 milioni di sì consentirono l'abrogazione degli articoli 55, 56 e 74 del codice.

Come talvolta accade dopo le grandi vittorie, gli eserciti vincitori si sparpagliano: i radicali ritennero che abolire quella disciplina derogatoria del codice fascista significava ripristinare la regola generale della responsabilità diretta (quella professionale di diritto comune o comunque quella dei pubblici dipendenti, di cui all'articolo 28 della Costituzione).Gli altri promotori ritennero invece che il quesito fosse imposto dalla natura solo abrogativa del referendum, ma che l'elettorato intendesse soltanto aprire la strada ad un altro tipo di responsabilità.

L'iniziativa era sul tavolo già dalla precedente legislatura ed era contenuta nell'Atto Camera n. 2138 della IX legislatura, approvato dal Consiglio dei ministri del 28 dicembre 1986, presieduto dall'onorevole Craxi e presentato dal Ministro di grazia e giustizia, onorevole Rognoni, di concerto con i Ministri del bilancio e della programmazione economica onorevole Romita e del tesoro, onorevole Goria, sul quale era stata avviata la discussione in Commissione giustizia al Senato. Unificando una serie di disegni parlamentari, sotto la sapiente guida del nuovo Ministro della giustizia Giuliano Vassalli, quella traccia fu sviluppata per coordinare il principio contenuto nell'articolo 28 della Costituzione con gli altri principi di pari valenza costituzionale. Con quella che divenne la legge n. 117 del 1988 si stabilisce che chi ha subito un danno ingiusto in dipendenza di dolo o colpa grave, commessa dal magistrato nell'esercizio delle sue funzioni, ha diritto di essere risarcito dallo Stato, previo giudizio di ammissibilità, e che poi ci possa essere la rivalsa da parte dello Stato che sia stato condannato al risarcimento del danno nei confronti del magistrato.

All'articolo 2 del comma 2 si stabilisce che non può dar luogo a responsabilità per danno l'attività d'interpretazione del diritto, di ricostruzione o valutazione del patto. Si tratta della cosiddetta clausola di salvaguardia che ha consentito ad un Consiglio superiore della magistratura in composizione incompleta e contestata nella sua legittimità da almeno due ricorsi giurisdizionali di affermare che l'istituto della responsabilità civile non può essere utilizzato per mettere pressione ai magistrati al fine di aumentare diligenza del singolo e la qualità della giurisdizione.

Era il 2000 quando la Corte di cassazione rifiutò di adempiere all'obbligo di rinvio pregiudiziale (obbligo per i giudici nazionali di ultima istanza, dicono i Trattati europei), da cui dipende l'espletamento stesso della funzione interpretativa conferita dai Trattati europei alla Corte di giustizia dell'Unione europea. Fu questo che portò alla prima condanna italiana a Lussemburgo.

Anche il dato europeo, però, era in quel momento generico e, quindi, suscettibile di essere influenzato da una decisa presa di posizione del legislatore italiano: l'elemento portante della ricognizione fatta dai giudici europei era ancora il fatto che la legge n. 117, la cosiddetta legge Vassalli, contiene la previsione di una responsabilità diretta dello Stato giudice, in quanto titolare della funzione giurisdizionale e non del singolo magistrato-giudice, per un atto, un comportamento o un provvedimento adottato nell'esercizio delle funzioni giurisdizionali.

Se si fossero sapute cogliere queste suggestioni forse la situazione italiana in Europa non sarebbe degenerata con l'apertura della procedura di infrazione del 2009 n. 2230 da parte della Commissione europea per il mancato adempimento della sentenza Traghetti del Mediterraneo. Ma vi erano coloro che credevano possibile la quadratura del cerchio mediante l'attribuzione del risarcimento da parte dello Stato, senza che ad essa corrispondesse una successiva decisione di esercitare il diritto di rivalsa verso il giudice.

Con la sentenza Commissione europea contro Repubblica italiana (Corte di giustizia del 24 novembre 2011 C379/10) dalla Corte di giustizia fu nettamente statuito che i giudici, come tutti gli altri organi statali, ivi comprese le autorità amministrative e gli enti locali, sono tenuti a disapplicare la normativa nazionale contrastante con il diritto dell'Unione fornito di efficacia diretta, ovvero possibile ad interpretare la prima conformemente al secondo, adottando i provvedimenti necessari ad assicurare e agevolare la piena efficacia di tale diritto proprio al fine di non determinare una responsabilità dello Stato in tal senso (la Corte europea, cioè, viene in soccorso allo Stato italiano).

Ora fronteggiamo una terza procedura di infrazione, quella che determina soltanto il quantum della multa a seguito di una velocissima procedura per ottemperanza: un'imminente pronuncia dei giudici europei, le cui condanne possono essere assistite da una riduzione dei conferimenti di risorse economiche dell'Unione europea all'Italia. Siamo pronti a spiegare ai cittadini che i fondi strutturali per la nostra agricoltura o i progetti finanziati col piano coesione per un anno non avranno soldi perché dobbiamo pagare le conseguenze dell'irresponsabilità della magistratura associata e dell'irresolutezza del decisore parlamentare? Bene, colleghi, la risposta di questo relatore, a nome della Commissione giustizia del Senato, è no: il punto di caduta dell'interesse nazionale è raggiunto nel testo che sottoponiamo a quest'Assemblea.

Il disegno di legge trasmesso dalla Commissione giustizia a questa Assemblea costituisce il frutto di un lungo lavoro istruttorio avviato al principio della legislatura e conclusosi, senza mutamenti di grande complessità, nel raccogliere il consenso sulle singole soluzioni normative, nella seduta notturna di mercoledì 5 novembre scorso, dopo un lungo e travagliato dibattito. È noto che il punto di partenza per l'adozione di una nuova disciplina in tema di responsabilità civile dei magistrati è la larga condivisione e la piena consapevolezza che il sistema previsto dalla legge n. 117, la cosiddetta legge Vassalli, non si è rivelato efficace e di effettivo ristoro per le pretese risarcitorie dei cittadini derivanti dall'attività giudiziaria, e ciò in esito ad un esame consuntivo ormai più che venticinquennale.

L'impostazione dei disegni di legge nn. 1070, 315 e 374, presentati rispettivamente da chi vi parla e dal senatore Barani, intendeva porre mano alle aree di disciplina che più di tutte determinavano la mancanza di effettività nella tutela del cittadino. Ovviamente le iniziative di legge muovevano dal presupposto di dover rispettare la volontà dei cittadini, espressa con la ben nota approvazione del quesito referendario del 1987 e dal necessario rispetto della cornice costituzionale nonché, da ultimo, dalla necessità di far fronte ad una procedura d'infrazione europea.

L'articolo 1, l'unico che non incide direttamente sulla legge Vassalli, indica l'oggetto e le finalità dell'intero atto normativo su cui il Senato è chiamato ad esprimersi. Gli articoli 2 e seguenti, invece, introducono modifiche all'articolato della legge vigente ma possono essere intesi, quanto alla loro portata, soltanto tenendo presente che la Commissione, in una delle prime sedute di esame degli emendamenti, approvò la soppressione dell'articolo 1 del disegno di legge n. 1070 adottato come testo base. Al riguardo, occorre rilevare che tale soppressione ha rappresentato il primo momento di profonda incisione sui contenuti della riforma su cui si andava svolgendo l'esame. Mi sto riferendo ad un momento in cui è stata impressa una direzione significativamente nuova al corso dell'istruttoria legislativa cui abbiamo preso parte. Infatti, la soppressione dell'articolo 1 ha rappresentato la scomparsa del parametro cui provare a commisurare uno degli elementi di possibile nuova attribuzione della colpa per danno derivante da provvedimento giurisdizionale. Si è infatti deciso di sopprimere l'ipotesi di ridefinizione del ruolo degli orientamenti della Corte suprema di cassazione nel nostro ordinamento. Ma vi è di più, poiché sopprimendo l'articolo 1 del disegno di legge n. 1070, la Commissione ha espunto dal piano di riforma ogni possibile riferimento ad una forma di responsabilità diretta. Quindi, ribadisco, questo testo normativo non consente di agire in forma diretta sul magistrato ma assolutamente in forma indiretta, smentendo con ciò le campagne giornalistiche portate avanti in queste settimane anche dall'ordine di autogoverno della magistratura.

L'articolo 2 del disegno di legge all'esame dell'Assemblea prevede le modifiche all'articolo 2 della legge Vassalli, innovandone decisamente il contenuto.

È stato innanzitutto stabilito che del danno non patrimoniale si risponde anche al di là dei soli casi di indebita limitazione della libertà personale dei singoli. È stato quindi introdotto un nuovo ambito di esclusione della responsabilità per l'attività di interpretazione di norme di diritto e di valutazione del fatto e delle prove. Su questo profilo la discussione in Commissione è stata profonda e articolata.

L'ipotesi di introdurre un parametro di responsabilità caratterizzato dal rapporto tra la motivazione e il discostamento degli orientamenti consolidati delle sezioni unite della Corte di cassazione non ha trovato alfine conclusione e ammissione all'interno del testo.

Con l'articolo 3 del disegno di legge, rimasto invariato in esito all'attività emendativa in Commissione, è stata disposta la soppressione del ben noto meccanismo del filtro. Questo era stato uno degli elementi che, di fatto, avevano reso inapplicabile, se non per piccolissima parte, la normativa Vassalli.

Sul filtro di ammissibilità, in dottrina e nell'opinione comune degli operatori del diritto, si sono accentrate fortissime riserve nel corso dei 25 anni di vigenza del legge Vassalli. Si tratta, infatti, di un istituto la cui natura deflattiva ha finito per paralizzare la via del risarcimento per i cittadini.

L'articolo 4 del disegno di legge n. 1070 stabilisce il principio per cui la decisione pronunciata nel giudizio contro lo Stato fa stato anche nel giudizio di rivalsa e nel procedimento disciplinare, con esclusivo riferimento all'accertamento dei fatti contenuto in sentenza. Concludo la disamina delle modifiche recate dal testo deliberato dalla Commissione con riguardo all'istituto dell'azione di rivalsa. Attribuita in capo al Presidente del Consiglio dei ministri, essa deve essere esercitata entro due anni dal risarcimento avvenuto sulla base del titolo giudiziale o stragiudiziale nei riguardi dello Stato.

La Commissione ha anche convenuto di renderla espressamente obbligatoria, ancorandone i presupposti alla stessa base normativa descritta innanzi, ma stabilendo che l'elemento soggettivo della condotta recante danno da parte del magistrato deve essere esclusivamente quello del dolo o della negligenza inescusabile. Seguono ulteriori norme concernenti la disciplina della transazione e la sua opponibili, nonché la disciplina speciale per i giudici popolari e gli estranei alla magistratura che concorrono a formare o formano collegi giudiziari.

Da ultimo l'articolo 6 del disegno di legge ridefinisce i limiti quantitativi della medesima rivalsa stabilendo che essa non può eccedere una somma pari alla metà di un'annualità di stipendio (la normativa precedente prevedeva un terzo), al netto delle trattenute fiscali, percepito dal magistrato al tempo in cui è proposta l'azione risarcitoria. Questo limite - è bene ricordarlo - non si applica al fatto commesso con dolo.

L'esecuzione della rivalsa, invece, se effettuata mediante trattenuta sullo stipendio non può comportare complessivamente il pagamento per rate mensili in misura superiore al terzo dello stipendio netto.

Chiude il disegno di legge la previsione per cui il mancato esercizio dell'azione di rivalsa comporta responsabilità contabile. Al fine di garantire un continuo monitoraggio sugli accertamenti di tale responsabilità è previsto un obbligo informativo alla Corte dei conti da parte del Ministro della giustizia e del Presidente del Consiglio dei ministri sulle condanne derivanti da fatti costituenti reato."

Mercoledì 19 Novembre 2014

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