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I FETICCI CALABRESI DELL’ANTROPOLOGIA CRIMINALE DI LOMBROSO

di Marcello Barberio

Cesare Lombroso (1835 - 1909) è unanimemente considerato il fondatore dell’”Antropologia Criminale” e della “Scuola positiva del diritto penale” del XIX secolo e il suo nome resta legato indissolubilmente alla teoria dell’uomo delinquente nato o atavico e agli studi di fisiognomica e di frenologia forense (1), che per decenni hanno influenzato pesantemente un numero imprecisato di processi penali, durante i quali i magistrati “deducevano i tratti antisociali” e i caratteri psicologici e morali delle persone dai lineamenti del volto. In una sorta di delirio di determinismo fisiologico, i delinquenti e i pervertiti (cinedi e tribadi) potevano essere individuati dal loro aspetto fisico, dal momento che è la natura che genera il criminale e questi porta impressi i segni fisici distintivi, atavici, ereditari del suo male.

Fortunatamente oggi la “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea” (Carta di Nizza) impone il divieto delle pratiche e delle manipolazioni eugenetiche, mentre la moderna psicologia transculturale pone l’accento sui condizionamenti socio-economici dei disturbi mentali.

Tuttavia e nonostante le accuse di razzismo scientifico, la testa del criminologo è ancora gelosamente custodita presso l’Istituto di medicina legale (il dissolto Museo di Antropologia Criminale) di Torino, in una teca poco distante dalla mensola su cui insiste il suo totem, cioè il cranio dolicocefalo e prognato del brigante calabrese Giuseppe Villella, su cui, nel 1871, scoprì la “fossetta cerebellare mediana”, associata all’apertura delle suture, all’atrofia delle fosse occipitali laterali e alla mancanza completa della spina occipitale interna, di cui faceva la vece : un’infossatura contenente una protuberanza del cervelletto “trilobo, come quello dei rosicanti, dei lemurini, dell’uomo tra il terzo e il quarto mese del concepimento”. Era la prova della connessione tra delinquenza e atavismo!

“Quel cranio divenne per me il totem, il feticcio dell’Antropologia Criminale”, annotava il criminologo nel 1907, a distanza di quasi 50 anni dal lontano 1859, quando si era arruolato nel Corpo Sanitario Militare Piemontese, durante la campagna di repressione del brigantaggio calabrese (2), per poter meglio studiare la natura atavistica del delinquente, “che riproduce ai nostri tempi i caratteri dell’uomo primitivo e giù giù fino ai carnivori”.

Nel 1864 pubblicò “Genio e follia”, sviluppando la tesi  –  già accennata in “ La pazzia di Cardano”  -  della correlazione tra  genio, pazzia e pervertimento, azzardando finanche un parallelismo tra delinquenza, imbecillità morale e donna ladra e prostituta, “psicologicamente criminale, che non commette crimini per la sua debolezza fisica”. Ancora nel 1907, il direttore del manicomio criminale di Aversa (Francesco Cascella) così scriveva a proposito della ferocia delle donne meridionali: “Nel 1799, le donne di Napoli arrivarono fino al cannibalismo,(come i briganti calabresi antropofagi)  come divennero cannibali le donne di Palermo, nell’insurrezione del 1866, che tagliuzzarono, vendettero, mangiarono le carni dei carabinieri, dopo averne sfregiato la virilità”

Cranio del brigante Giuseppe Villella      

Riallacciandosi alle teorie del padre dell’eugenetica, Francis Galton, Lombroso sosteneva che il delinquente e il genio fossero condizionati dai fattori biologici ereditari, ancor più che dai comportamenti socio-economici: “la bestia è nell’uomo” e conseguentemente la malattia nervosa affievolisce il grado di responsabilità del criminale (3), del delinquente nato con istinti non modificabili come del delinquente occasione, del delinquente per pazzia o per passione.

“I criminali non delinquono per un atto cosciente e libero di volontà malvagia, ma perché hanno tendenze malvagie […] Il delinquente è vittima della sua malattia e il delitto si rivela un fenomeno naturale, necessario […] Il diritto della società di punire il criminale trova la sua base sulla pericolosità sociale del delinquente e non sulla sua colpa o sulla sua responsabilità”.  

Proseguendo gli studi presso l’Università e il manicomio di Torino, accrebbe la sua fama di psichiatra e di criminologo: ma non si fece scrupolo di mandare il fido maggiordomo Cabria  nelle taverne più malfamate, per adescare criminali disposti a farsi visitare dal padrone.

Gli studiosi moderni sostengono che Lombroso  -  coevo di Darwin e di Mendel  -   utilizzò il metodo scientifico per confermare stereotipi diffusi nella società e nella cultura del suo tempo, in particolare dalle teorie del francese Joseph Arthur de Gobineau, autore nel 1853 di un “Essai sur l’inégalité des races humaines”.

Cascella, però, non aveva difficoltà a sottolineare in “Brigantaggio - Ricerche sociologiche ed antropologiche” (con prefazione dello stesso Lombroso): “Il tipo criminale ha dal lato fisionomico un perfetto riscontro nell’arte e in alcuni quadri a soggetto religioso: negli “Affreschi del camposanto di Pisa” dell’Orcagna troviamo i violenti, gli omicidi, i carnefici, (come pure) nella “Strage degli Innocenti” di Giotto, nei “Martiri” del Beato Angelico, nel “Cristo fra due ladroni” del Tempesta, nel “Martirio di San Lorenzo” di Tiziano, nella “Crocefissione” e nel “Martirio di San Bartolomeo” del Veronese, nel “Giudizio Universale” di Michelangelo […] Si hanno fisionomie ripugnanti e brutali, che riproducono i caratteri dei tipi criminali: testa grossa e ottusa, occhi piccoli o grifagni, mascelle grandi, fronte bassa e fuggente, orecchie ad ansa, zigomi sporgenti, capelli abbondanti, barba scarsa o mancante…”. I caratteri morfologici di un popolo  -  di un’etnia  direbbe Sergio Sergi  -   venivano assunti come distintivi della supposta diversità biologica e psicologica di una sub-species umana territorialmente “adattata” e definita.

Non meraviglia, perciò, che gli studi di Lombroso abbiano germinato idee bizzarre e finanche tesi razziste, come quelle di Alfredo Niceforo, autore nel 1901 di “Italiani del Nord e Italiani del Sud”, dove s’ipotizzava l’azzardo dell’inferiorità della razza meridionale, detta “razza maledetta”.

Suggestioni lombrosiane si trovano in diverse opere letterarie, mentre la degenerazione della teoria del “bruto primordiale” portò in Germania alla proposta di sfoltimento delle stirpi indesiderate (Ernst Haeckel) e all’affermazione nel 1909 della Società Tedesca per l’Igiene della Razza (Alfred Ploetz), che perorava la sterilizzazione dei malati di mente e la soppressione degli scarti delle unioni umane. Era il trionfo delle cosiddette “teorie proto-razziste” dei “degenerazionisti” come Benedict Augustin Morel, Max Nordau, W.F. Edwards, Francois Pruner, Rudolf Virchow, assertori delle “deviazioni dal normale tipo umano [..]che si trasmettono attraverso l’ereditarietà”. Premessa  “culturale” per i manifesti apologetici della pulizia etnica e per l’istituzione nel 1933 dei Tribunali per la  Salute della Stirpe, col compito di preservare la purezza del patrimonio genetico del popolo eletto del Fuhrer. 

Ma procediamo con ordine.

Nel 1876, lo studioso veronese pubblicò il “Trattato antropologico sperimentale dell’Uomo Delinquente”, contenente l’esame autoptico di 832 delinquenti, tra cui il cranio di Giuseppe Villella, brigante calabrese di Simeri Crichi (4)

“Occupandomi da qualche tempo dello studio dell’uomo criminale, nel visitare il penitenziario di Vigevano(5), fui colpito dalla vista di un tristissimo uomo, che vi degeva da pochi giorni. Era certo Villella, d’anni 69, contadino, sospetto di brigantaggio e condannato tre volte per furto, e da ultimo per incendio di un molino, a scopo di furto. Uomo di cute scura, scarsa e grigia barba, folti i sopraccigli e i capelli, di colore nero-grigiastri, naso arcuato, alto della persona m1,70: […] era tutto stortilato, camminava a sghembo, ed aveva torcicollo. Ipocrita, astuto, taciturno, ostentatore di religiose pratiche, negava aver commesso alcuna disonesta azione, ma in fatto era così appassionato pel furto , che derubava fino i compagni del carcere. Questi mi dissero che nell’intimità non si mostrò punto libidinoso; raccontava sì qualche oscenità commessa nella gioventù, e di aver usato con donne sodomiticamente, ma non più che nella prima gioventù, e non più che sogliano gli altri uomini di quella risma; del resto i suoi discorsi eran d’uomo di senno maturo e calmo di passioni; mai si masturbò, giammai attentò ai compagni, e non mostrò agilità muscolare straordinaria, né ferocia, né spirito vendicativo. Morì in poco tempo per tisi, scorbuto e tifo. […] Quel cranio presenta: circonferenza mm520, curva longitudinale  370, trasversale 320, diametro longitudinale esterno 196, biparietale 135, frontale 11, bizigomatico 130, longitudinale interno 188, bicipitale 130, frontale 111, altezza verticale 138, spessore medio 19, lunghezza dell’osso frontale 120, parietale 143, occipitale 122, […] cervello del peso i gr. 1340. In complesso era un cranio doligocefalico, prognato, con sutura non ancora saldata, della forma e capacità ordinaria delle razze Calabresi, solo un po’ differente per un maggiore sviluppo dei seni frontali e degli archi sopraciliari, e per la ricchezza di quelle digitazioni nella tavola interna, che corrispondono all’atrofia cerebrale […] La fusione congenita colla parte corrispondente all’occipite, dell’atlante, i cui archi anteriori e posteriori si presentano atrofici e rudimentali;anomalia rara […] Mancava la cresta occipitale interna, e dalle braccia orizzontali della spina crociata dell’occipite, ai lati della protuberanza occipitale interna, partivano due rilevatezze ossee […] “. Iniziava la “barbarizzazione” del diverso.

In una sorta di delirio tassonomico, su un album  –  accanto alle fotografie di vari criminali e del cosiddetto “uomo quadrumàno” delle specie inferiori  -  eseguì disegni e dipinti di crani di varia provenienza : M.P. di Pavia, tessitore maniaco ; Martinetto Pietro brigante di Calabria; Vincenzo Verzeni serial killer; Patti brigante; cretino contadino; Villella calabrese, ladro agilissimo  e senza alcuna speciale tendenza venerea.

Indagando sulle origini di tale brigante, ho trovato che in un “certificato di penalità” della Pretura del Mandamento di Martirano del 1889, risulta un Villella Giuseppe fu Vincenzo, contadino, nato a Conflenti il 5 dicembre 1870; in un processo per cospirazione armata nel luglio 1821 risultano imputati Giovanni e Antonio Villella di Conflenti (6).

Dalle carte relative a diversi altri processi di brigantaggio (7) risulta che il territorio di elezione delle  scorribande di Giuseppe Villella era quello di Simeri Crichi, nel Catanzarese.

Il suo cranio ha rappresentato il principale feticcio  -  il totem  -  del razzismo scientifico ottocentesco ispirato da Lombroso e diffuso da Luigi Pigorini, Alfredo Niceforo, Enrico Ferri (8) e dagli altri epigoni del positivismo del tempo. La polemica delle Due Italie è antica e data almeno dall’Unità del 1860: già nel 1876 la Commissione Parlamentare d’Inchiesta sulla Sicilia avallava l’esistenza in Italia di almeno 2 razze, l’ariana eurasiatica del Nord e l’euro-africana o negroide del Sud e in generale del Mediterraneo; ancora nel 1916 la Mappa delle Razze Europee dell’eugenista Madison Grant distingueva la razza nordico- alpina o celtica e la razza mediterraneo-africana e semitica.

 Per molti giornali del Nord il Sud era ”Africa nera”, i cui “meticci” erano criminali nati, se non altro perché discendenti da popolazioni preistoriche negroidi, con l’istinto alla violenza e al rifiuto delle regole della convivenza civile.

Su “Ordine Nuovo” del 1920, Antonio Gramsci denunciava  il pregiudizio  - presente anche nei partiti operai, che l’avevano  veicolato tra le masse lavoratrici   -   del Mezzogiorno “palla di piombo” che ostacolava lo sviluppo italiano, essendo i Meridionali “biologicamente semibarbari per destino naturale”, anche se la natura, di tanto in tanto, stempera la sorte matrigna con l’esplosione individuale di grandi geni, “come palme solitarie in un arido e sterile deserto”.

La scienza veniva così relegata al rango di damigella della filosofia e dell’ideologia, deputate a placare l’arcaica angoscia del preludio della morte. Nella medicina mitica o taumaturgica, infatti, la malattia era una diretta manifestazione di una qualche entità esoterica, per cui si parlava di “morbo sacro” (epilessia) e di deità delle patologie: Cerere era la divinità che sovrintendeva all’igiene, Lissa era la dea della follia, Asclepio (per i Greci) e Morduk (per i Babilonesi) erano gli dei della guarigione, Igea era la dea della salute e Chirone era semplicemente il guaritore delle ferite dei guerrieri. Nei recinti della scienza ieratica ottocentesca  il concetto d’igiene era strettamente collegato all’inibizione della sregolatezza dei sensi, indice inequivocabile della congenita degenerazione etica e retaggio atavico imprescindibile.

L’altro feticcio germinato dall’antropologia criminale positivistica è stato il “pazzo selvaggio”, che poco si discosta dal delinquente nato; era anch’esso calabrese, oriundo di Girifalco di Catanzaro. Il suo nome era Salvatore Misdea, homo criminalis con le “stimmate frenologiche e fisiognomiche”, cioè con la faccia, la maschera del delinquente dell’immaginario sociale.

Per Lombroso, il calabrese presentava il carattere della tribù e costituiva un attentato continuo alla sicurezza degli altri, dal momento che “il pazzo morale, oltre il male per proprio vantaggio, commette più spesso il male pel male senza suo pro”.(9) Sergi lo ha  assimilato all’ invalido morale e  Benedickt al nevrastenico morale e, con l’innata e non attenuabile tendenza a delinquere. Ancora una volta, la teoria della razza maledetta  - funzionale all’ideologia delle élites sociali  - generava e diffondeva lo stereotipo razzistico della negatività dei Meridionali e dei Calabresi in particolare (10), nei quali sarebbe riscontrabile finanche la supposta “disvulnerabilità” (M.Benedickt), cioè la facilità alla rapida riparazione delle ferite, insita nel fattore organico e nell’anomala costituzione dei  “degenerati”.

 Il 13 aprile del 1884, nella caserma Forte dell’Ovo di Napoli, il ventiduenne militare di leva Salvatore Misdea evadeva dalla cella di rigore ed esplodeva 52 colpi di fucile contro i suoi commilitoni, uccidendone 8 e ferendone altri 13, per difendere l’onore dei Calabresi e della Calabria, pesantemente offeso. L’insistita umiliazione aveva prodotto una forte sofferenza psichica, una crisi d’angoscia, capace di attivare impulsi distruttivi e di scatenare la passione alla vendetta, intensa, riparatrice, magica (11): l’offesa, però, era solo la causa determinante, che si soprapponeva a quella predisponente, cioè al fattore biologico (ereditarietà), che lo aveva fatto nascere delinquente, privo di senso morale per insensibilità fisiologica e psichica alla sofferenza propria e altrui (analgesia o assenza di sensibilità dolorifica, fisica e/o spirituale). L’altro era diventato il diverso pericoloso!A nulla era servito l’insegnamento di Tommaso Campanella, che nella sua “Città del Sole”,  così aveva denunciato le sperequazioni e le turpitudini sociali della Calabria: “…la povertà è la principale cagione che rende gli uomini vili, furbi, fraudolenti, ladri, intriganti, traditori, presuntuosi, falsari, vanagloriosi, egoisti […] nel tempo stesso non servono alle cose ma le cose obbediscono ad essi”. E nel deserto dell’indifferenza si era dispersa finanche la voce dell’illuminista calabrese Francescantonio Grimaldi, il quale, nelle sue “Riflessioni sopra l’ineguaglianza tra gli uomini,”così descriveva nel 1779 la vita dei nostri piccoli paesi di provincia: “..un misto bizzarro di vita semplice e campestre, frammischiata di vecchi pregiudizi di secoli barbari e d’ignoranza, e condita, di quando in quando, del lusso e dei costumi correnti […] La sfera delle idee è ristrettissima, a proporzione della piccolezza degli oggetti che formano la base de’ loro bisogni, le arti sono rozze ed in picciol numero, le scienze non vi penetrano che per riverbero delle Capitali, ma non vi prendono mai radice […] ancora un residuo del carattere degli antichi nostri barbari; le piccole offese spesso sono cagione di atroci omicidi, le inimicizie sono durevoli e perniciose, il punto d’onore prevale ad ogni altro sentimento […] secondo il ristretto numero de’ loro bisogni”.

La storia ci tramanda che il povero Misdea fu imputato di “Insubordinazione con vie di fatto, mediante omicidio e mancato omicidio, commessi per motivi non estranei alla milizia ed aggravata da omicidi consumati e mancati di altri militari di grado uguale”. Il fatto cruento e insolito, culminato con l’esecuzione capitale del reo per fucilazione, suscitò grandissima commozione nell’opinione pubblica italiana ed europea, anche perché perito di parte del giovane omicida fu Cesare Lombroso in persona. Il tribunale militare era composto da 6 ufficiali-magistrati e militare era anche l’avvocato fiscale, con funzioni di pubblico ministero; la requisitoria contro il fante-contadino fu scritta dal magistrato Isidoro Mel e fu pubblicata da diversi giornali. Per la prima volta  Lombroso (12) sostenne la tesi della correlazione tra epilessia e criminalità, equiparando il folle morale (pazzia acquisita) al delinquente nato. ”La follia morale, l’epilessia, l’ereditarietà, la barbarie del paese d’origine e della famiglia, i traumi e l’alcolismo” configuravano la parziale irresponsabilità dell’imputato, di cui, però, il criminologo perorò la necessaria condanna a morte, per emendare la società di un individuo nocivo e biologicamente incline alla violenza e all’omicidio. Un mese dopo la condanna, il giovane calabrese fu fucilato a Napoli.

Il clamore dell’episodio e la commozione nell’opinione pubblica spinsero Lombroso a pubblicare  - con lo psichiatra Leonardo Bianchi  -  un opuscolo su “Misdea e la nuova scuola penale” e soprattutto fornirono a Edoardo Scarfoglio materia per pubblicare in 38 puntate, sulla “Riforma” di Roma, la ricostruzione di quello che è stato definito “Il romanzo di Misdea”, un pamphlet giornalistico o romanzo d’appendice, scritto con l’intento di suscitare una “universale sollevazione del senso morale”, anche se in diverse pagine compaiono immagini stereotipate della diversità che connotava i contadini meridionali “ancora selvaggi” e costretti alla dura disciplina della leva militare, vissuta come estranea “dai diseredati senza speranza”, bisognevoli di “domesticazione”.

Nelle sue narrazioni a tesi, Scarfoglio tentò di utilizzare le teorie lombrosiane a fini innovativi e di riforma delle istituzioni nazionali; lo imitarono anche Carlo Dossi (“Misdea e la nuova scienza penale di Lombroso e Bianchi”) e Luigi Capuana (“Il vampiro”), mentre Pascoli puntualizzava che “non esiste l’uomo normale, non evoluto […] e il libero arbitrio è la macchina con cui gli uomini fabbricano il proprio avvenire”.  Anche per Agostino Gemelli il “tipo criminale non esiste, né la delinquenza è conseguenza fatale della degenerazione, anche se molti fattori psico-sociali possono attenuare la pienezza del libero arbitrio”.

Negli anni trenta del secolo scorso, I. P. Pavlov e J.Dollard   -  e successivamente Berkowitz e Skinner  -   hanno dimostrato che l’aggressività è frutto di frustrazioni e comunque di un comportamento reattivo, più che di un impulso spontaneo, autonomo e adattivo, come sostenuto da S. Freud e da K. Lorenz.

Contro la teoria della razza maledetta insorgevano Colajanni, Labriola, Einaudi e tantissimi intellettuali e studiosi, mentre Gaetano Salvemini provocatoriamente scriveva: “..se non siamo capaci di governarci da soli, ci daremo in colonia agli Inglesi, i quali ci tratteranno meglio…”.

Fortunatamente, da Hegel a Fromm, sono stati proficuamente indagati anche  i vorticosi rapporti tra la mente umana e il potere autoreferenziale, per cui oggi possiamo contrastare le derive culturali collettive degli stravaganti manifesti ideologici contro la vil razza selvaggia (13), ontologicamente marginale, che non sa eguagliare, irrimediabilmente, gli standard di sviluppo delle aree più progredite!

 

 

(1 febbraio 2013)

 

 

 

 

 

 

 

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